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 Il vice del pallone

Fantasticando sul poter scegliere, dopo la morte, una futura vita da trascorrere nuovamente su questo pianeta, talvolta una tentazione mi coglie: fare il viceparroco.

Certamente ci sono altre possibilità, forti tentazioni che assalgono la mente: il pilota, il subacqueo, il medico od andare in Marina, dove “girerai il mondo”: sono tutte sirene ammalianti. La figura del viceparroco però, vale a dire quella d’un giovane prete che in genere sapeva giocare bene al pallone, ha forse un fascino decisamente vincente.

Nella tranquilla e provinciale Italia degli anni '50, la figura di riferimento principale del quartiere era, almeno per noi maschietti, quella del viceparroco, abbreviata sempre nel più semplice "vice".

Oggi non so se questa figura esiste ancora: forse nelle grandi città, dove le parrocchie hanno, almeno sulla carta copiosi greggi d’anime da custodire, può darsi che nelle sempre più ristrette gerarchie ecclesiastiche si trovi talvolta qualche giovane da mandare in aiuto ai sempre super affaccendati parroci.

In realtà, con la vertiginosa caduta delle vocazioni, è difficile trovare qualcuno da mettere al fianco d’un parroco: già per coprire i posti vacanti le autorità ecclesiastiche devono raschiare il fondo del barile e, non di rado, oltre a banane e computer ci troviamo ad importare da paesi lontani anche preti e suore.  

Non credo di raccontare nulla d'eclatante affermando che la religione cattolica, soprattutto in alcuni paesi mediterranei, è stata una struttura di potere forte ed omnipervasiva: si andava dal rigido controllo (almeno formale) della moralità alla raccomandazione per avere un posto da usciere in banca.

Queste cose però a noi ragazzini interessavano poco, come quasi nessun interesse destavano in noi i sermoni domenicali che sciorinava dal pulpito il parroco; era roba per grandi, parole rivolte a quelli che contavano qualcosa. A noi bastava aspettare, osservando i limpidi fasci luminosi che cadevano dalle vetrate o la lama di luce che filtrava dai pesanti tendaggi all’ingresso della chiesa, ed attendere con pazienza il fatidico: “Ite, missa est ”.

Quel gioioso messaggio avevamo imparato a riconoscerlo in fretta nel monotono biascicare delle litanie latine, ancor prima che l’ingresso alla prima media portasse con sé lunghe ore da trascorrere fra declinazioni e verbi deponenti, Cesare e Cicerone.

Ma il potere della Chiesa era universale e, anche dopo l’uscita dal tempio, l’occhio guardingo di Dio continuava a scrutarci incarnandosi, dopo il mistero della transustanziazione nella messa, nelle forme d’un giovane d’una decina d’anni più vecchio di noi con indosso una lunga tonaca nera: il "vice", appunto.

Costui era mandato a sperimentare le prime, rudimentali scaltrezze del potere fra i giovincelli, proprio come i rampolli di casa Agnelli svolgevano le loro prime mansioni pubbliche nella più tradizionale attività di famiglia: la cura e la gestione della Juventus.

Cosicché, al più impegnativo potere sulle anime del quartiere - che impegnava il più esperto parroco - si contrapponeva quello più modesto del "vice": il potere del pallone.

Oggi un pallone è un oggetto di poco conto; se si buca, infilzato sulle punte d’una cancellata o andando ad incocciare la robusta spina d’un pruno selvatico, viene gettato tranquillamente: con pochi euro se n'acquista un altro e si continua a giocare.

In quel mondo, non ancora pervaso dall’onnipresente plastica, un pallone era un pallone, vale a dire un oggetto da tenere da conto e da preservare con cura: negli improvvisati campetti di periferia, quando ancora il calo demografico non si sapeva cosa fosse e numero dei ragazzini presenti superava sempre il numero dei giocatori, il proprietario del pallone, per quanto schiappa fosse, giocava sempre.

Nella partita domenicale all’oratorio, al potere economico del ragazzino un po’ più ricco degli altri si sostituiva l’insindacabile potere giudiziario del "vice": «Hai rovesciato le ampolline mentre servivi messa? Entri solo nel secondo tempo. Ti ho sentito bestemmiare quando il pallone è finito nel pozzo? Oggi non giochi. Ieri non sei venuto agli esercizi spirituali? Fai l’arbitro.»

Iniziava quindi il rito dell’apertura della porta, non quella sacra, giubilare, ma quella dello sgabuzzino dov’erano ricoverati i palloni: c’era quello delle grandi occasioni, dei tornei serali per gli adulti, che a toccarlo ci si beccava due domeniche a fare il raccattapalle, c’era quello per gli adolescenti, i “grandi”, col quale si cercava di convincere i diciassettenni a correre dietro ad un pallone piuttosto che a qualche improbabile palpeggiamento di piccole tette nell’androne d’un casermone di periferia.

C’era infine il nostro: il più usato, spelacchiato e con le cuciture slabbrate, che misericordiosamente avevano retto a generazioni di scalciamenti, muretti, vetri rotti ed immersioni nel pozzo.

Appena il "vice" consegnava la mitica sfera nelle mani del più svelto ad appropriarsene partiva l’urlo collettivo mentre la torma di ragazzini, con quello col pallone in testa, sciamava nella polvere del campo resa leggera ed impalpabile come farina dal sole del mezzodì.

Iniziava quindi il rito della costituzione delle squadre con i due capitani, in genere i due più bravi, a contendersi all’inizio i migliori piedi a disposizione, per poi diventare altrettanto scaltri nello schivare le schiappe che man mano rimanevano: il tutto era accompagnato da cori d’approvazione o di protesta, sui quali torreggiava sempre un «Va bè, ma non è giusto», frase che avremmo imparato a ripetere, in ben altre situazioni, per tutta la vita.

Quella che poi avrebbe dovuto essere una partita di calcio era in realtà molto simile ad uno scontro gladiatorio; calci e sgambetti, ginocchia sbucciate e pallonate in faccia erano la norma: talvolta, nella polvere, non si riusciva nemmeno a capire dove fosse finito il pallone.

C’era poi qualcuno che, volendo forse emulare la voce roca di Nicolò Carosio, mentre giocava sciorinava la radiocronaca in diretta: “Prende la palla Toso e la passa a Bertola, ma interviene Giannetti ...” Qui la radiocronaca si interrompeva, giacché il radiocronista era impegnato a cercare di scalciare uno sgusciante pallone oppure era finito a terra, con uno stinco dolorante ed i pantaloncini strappati.

Molti anni dopo, quando anni e sigarette avevano già accorciato la mia resistenza e, chissà perché, allungato terribilmente il campo di gioco, mi ritrovai a giocare una partitella fra italiani e tibetani, una di quelle partite che si giocano tanto per aspettare l’ora di cena.

Non eravamo più ragazzini eppure, ai nostri secchi “Qui!”, “Passa!” o “Vai!” faceva da contrappunto un vociare cantilenante e confuso d’uno di loro: visto che era molto improbabile - dato il contesto - che si trattasse di litanie buddiste, credo proprio che quel tipo con gli occhi a mandorla facesse la radiocronaca.

Quando, gironzolando fra i canali televisivi, sento squartare il capello in quattro su questa o quell’azione, su una gamba un po’ più in qua od un po’ più in là, non riesco più ad ascoltare ed il dito scatta automaticamente sul telecomando, a cercare qualcos’altro da vedere: la magia del gioco del calcio non è fatta di fiumi di parole, ma di sottili sensazioni.

Quando ti trovi a correre lungo la linea del “fuori”, cercando di sfuggire ad un terzino che arranca per acchiapparti e cerchi il momento giusto per stringere verso la porta, o la testa del tuo compagno pronta a ricevere il cross, allora non c’è più nessuna differenza fra te e Gigi Riva, Platini o Ronaldo.

Non contano, in quel momento, piedi, blasoni o miliardi, conti solo tu e il pallone, e quel maledetto terzino che non molla e che senti arrancare alle tue spalle; se gli sfuggi, e la palla entra in porta, allora la gioia che provi è la stessa che si prova alla finale dei mondiali: per questo le anime semplici gioiscono al punto di fare anche la radiocronaca di se stessi.

L’imperativo del campo sembrerebbe essere il “non pensare”, proprio per questo non mi è mai piaciuto tirare un calcio di rigore: è una cosa fredda che ha il sapore di un’esecuzione. Ti fa venire le farfalle allo stomaco mentre prendi la rincorsa, perché se la butti dentro hai fatto solo il tuo dovere, mentre se il portiere ti frega, e con uno straordinario colpo di reni te la devia in corner, sei solo una schiappa.

Oggi, appena un ragazzino sembra colpire il pallone un po’ meglio degli altri, oppure un padre gli vede fare un discreto “stop” od una finta in velocità, scattano subito oliatissimi meccanismi composti da rigorosi allenamenti, programmi, presentazioni ai settori giovanili delle grandi squadre, “soffiate” a questo o quel faccendiere del pallone, “che tanto ho mio cugino che lo conosce”.

Il ragazzino sarà immediatamente tesserato e, insieme a quel cartoncino che attesta la sua appartenenza ufficiale al circo del pallone, gli sarà consegnato un codice da rispettare: se fumi sei fuori, niente motorino, il sabato sera niente discoteca, tre allenamenti la settimana, palestra per “rinforzare” la struttura muscolare e così via.

Questo è il bastone; la carota invece è: “Se vai bene, il prossimo anno ti facciamo fare il torneo Beretti, e l’anno dopo potresti giocare in C2, dove sono professionisti e ti becchi già dei bei quattrini.”

Così il nostro quindicenne trascorrerà ore ed ore a provare e riprovare i fondamentali: stop, passa, stop, passa, cross, testa, stop, passa. Poi i giri di corsa del campo, dieci, venti, fino a “scoppiare”: il tutto sotto l’occhio attento di un padre al quale già brillano gli occhi, per la speranza di vedere realizzata l’alchimia di trasformare la carne umana in capitale.

Per quei pochi, cui lo spirito di Paracelso concederà di trovare questa moderna pietra filosofale, ci saranno l’onore delle cronache, le interviste delle scosciate giornaliste del calcio televisivo, le chiamate dai grandi club e dalla Nazionale e tanti, tanti mucchi di dobloni: veri forzieri degni del miglior Morgan pirata o dell’archetipo dei ricconi, lo zio Paperone.

Per gli altri, diciamo per appena il rimanente 98%, ci saranno le partite domenicali di seconda o terza categoria giocate davanti a venti persone, cifra che include arbitro, guardalinee, parenti ed amici, fino ad un matrimonio od un trasferimento, che porteranno a piantare il fatidico chiodo in cantina al quale appendere le scarpe coi tacchetti.

Rimarrà il ricordo di qualche bella partita, di quel “quattro a due in trasferta quando perdevamo due a zero”, di quella doppietta segnata a quel portiere "che aveva giocato nelle giovanili del Toro" e la telefonata dell’amico per le rituali partite fra celibi ed ammogliati: nei casi più gravi rimarrà anche qualche sordo rimpianto.

Di quei mesi passati ad allenarsi piano piano svanirà il ricordo: in compenso, non si saprà nemmeno vagamente cosa significa avere il cuore in gola in attesa che il "vice" apra lo sgabuzzino dei palloni.

Così i cortili, i muretti, i campetti di periferia, forse anche complice il calo demografico, non hanno quasi più nulla da raccontare: né ginocchia sbucciate né rivincite della rivincita della rivincita della partita del giorno prima, tanto meno risultati come 15 a 9 o 22 a 14, e neppure zuffe o giovani amicizie messe in crisi per un calcio di rigore contestato.

Perciò, anche tutto un linguaggio: “porta inglese”, “tre corner un rigore”, “palla contesa, palla alla difesa” se ne va, lasciando il posto alle più serie “verticalizzazioni”, “sciabolate” ed ai “momenti topici” che tutti citano, dimenticando che “topico”, in italiano, è un termine medico scientifico che ha a che vedere con la difesa dai batteri.

Ma il grande gioco della politica internazionale, con i suoi muri caduti o ricostruiti, le nuove ricchezze e le antiche povertà ci consente, attraverso lo specchio magico della televisione, di osservare con la macchina del tempo noi stessi, oggi cinquantenni, quando eravamo ragazzini.

Basta incocciare un servizio televisivo sull’Albania, il Marocco, il Brasile o la Romania e fra vecchie e nuove povertà, innovazione tecnologica e brusche cadute economiche, da qualche parte la telecamera non potrà fare a meno d’inciampare in un campetto dall’erba spelacchiata con le porte costituite da rozzi pali di legno, dove una torma di ragazzini vocianti rincorre, con ai piedi delle scarpe di tela, un pallone.

Un pallone che pare non volerne mai sapere d’entrare in porta mentre, chissà perché, finisce sempre nel sottostante torrente, nell’orto d’un contadino grifagno, su una strada dove sfrecciano minacciose automobili.

Siamo noi redivivi, i ragazzini dell’Italia del dopoguerra, tornati a rinascere in qualche plaga del pianeta dove, quando si viene al mondo, ci si ritrova già ad avere quattro o cinque fratelli e sorelle, in un turbine di vestiti e scarpe riciclate da uno all’altro ed una grande libertà: quella regalata dall’assenza dei genitori, sempre troppo occupati nel lavoro o nella ricerca di nuovi modi di sbarcare il lunario.

Nei paesi musulmani non ci sono preti, e credo che né i muftì né i mullah abbiano dei "vice" che portano i ragazzini a giocare al pallone, ma credo che quei giovani se la cavino lo stesso da soli. Forse da qualche parte in America Latina, fra l'Argentina e il Nicaragua, il Brasile ed il Perù, può darsi che ci sia ancora qualche Diego o Manuel, Alfonso o Ramon che aspetta, con le scarpe di tela ai piedi, che il "vice" apra lo sgabuzzino dei palloni.