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Un mondo all'idrogeno

Si è appena conclusa a Parigi la conferenza sui mutamenti climatici (ICCP): il gruppo d'esperti che fa capo all'ONU ha raggiunto un accordo al 90% sul testo che prevede un innalzamento del clima che durerà per il prossimo millennio.

Gli scenari che vengono prospettati sono apocalittici: innalzamento del livello dei mari, aumento della superficie dei deserti, carenza idrica, ecc.

Quel 90% indica che non tutta la comunità scientifica è d'accordo sulle conclusioni del vertice: il 10% degli scienziati si mostra ancora scettico sull'origine antropica dei mutamenti climatici in atto. Una porzione assai ristretta della comunità scientifica ritiene che i mutamenti siano da imputare al naturale ciclo del clima, ossia a fattori estranei alla presenza dell'uomo: si cercano risposte nel ciclo delle macchie solari, oppure si sostiene un generale riscaldamento del sistema solare.

Il fatto che la comunità scientifica non sia unanime sulle conclusioni del vertice rischia di depotenziare l'azione che i governi dovranno intraprendere per affrontare i problemi: in altre parole, se non sono certo che riscaldamento è dovuto alle attività umane, posso tranquillamente continuare a comportarmi come ho sempre fatto.

Neppure, però, possiamo ignorare che la gran maggioranza degli scienziati è oramai schierata su posizioni che imputano al genere umano la responsabilità per gli evidenti mutamenti climatici che stanno avvenendo.

Come trovare una via d'uscita per non cadere nel tranello di una diatriba senza fine?

Potremmo iniziare a considerare che il mutamento climatico esiste ed è in atto: a causa delle attività umane? Per cause naturali? Non importa: c’è.

Supponendo che il mutamento climatico sia estraneo alle attività dell’uomo, la continua immissione di gas serra nell’atmosfera contrasterebbe l’aumento delle temperature dovuto ai naturali cicli del clima?

Sappiamo che la temperatura del pianeta – dopo la “piccola glaciazione” del 1500 – è tornata a salire dall’Ottocento: ciò che preoccupa, oggi, non è tanto l’entità dei mutamenti ma la velocità con la quale avvengono. L’uomo non c’entra nulla?

Per fortuna, almeno su questo, la scienza è unanime: è universalmente riconosciuto che gas come il Diossido di Carbonio trattengono la radiazione infrarossa che, altrimenti, sarebbe riflessa verso l’infinito.

Il fenomeno è stato riconosciuto ed accertato: la radiazione luminosa che giunge sulla Terra – a causa di molteplici riflessioni e rifrazioni dovute agli ostacoli che incontra – muta in parte la sua lunghezza d’onda ed aumenta quella a più bassa frequenza, ossia l’infrarosso.

Ebbene, la CO2 trattiene la radiazione infrarossa come un foglio di nylon lascia passare la radiazione luminosa mentre blocca quella infrarossa: un fenomeno semplice, che tutti possiamo comprendere se consideriamo come si comporta una semplice serra per la coltivazione di fiori ed ortaggi.

Ora, se esiste un mutamento che ha cause naturali possiamo farci ben poco: ciò che invece possiamo (e dobbiamo) fare è evitare d’aggiungere danno al danno, anche se – per la natura – l’aumento della temperatura non è certo un danno. Lo è certamente per la razza umana e per altre migliaia di specie, ma l’evoluzione c’insegna che una soluzione c’è sempre: fra qualche milione di anni la specie dominante potrebbe essere formata da lucertole estremamente evolute, oppure da rane, da una mutazione dei delfini…

Se, invece, vogliamo dimostrare di meritare il trono sul quale sediamo da millenni – ovvero quello della specie dominante – dobbiamo mostrare con i fatti di meritare quella posizione, ossia di saper ragionare da esseri dotati di saggezza e lungimiranza.

E’ quasi puerile – su questo fronte – osservare la nostra pochezza: a Parigi si sono uditi spezzoni di discorso dove si vaneggiava una nuova “governance mondiale”. Ma sanno di cosa parlano? Ricordano qualche pagina di storia?

Forse – in italiano – non si traduce il termine e si preferisce lasciarlo in un dubbio inglese: quello che gli scienziati anelano per risolvere il problema è il governo mondiale dell’economia e della politica!

Ora, se riflettiamo che l’ONU non è in grado d’arrestare una guerra abbastanza contenuta come quella irachena, non è stata capace di fermare i bombardamenti su Beirut, non sa dire nulla per risolvere le infinite crisi in Jugoslavia, in Somalia, in Cecenia…pretendiamo che s’assuma il governo del pianeta?

Le tristi fini della Società delle Nazioni – ed ora dell’ONU che ne segue le orme – non c’insegnano forse che il problema nasce e muore nel concetto di stato nazionale, così moderno quando s’affermò e disegnò una nuova geografia del pianeta, ma oggi tristemente inutile per affrontare le sfide globali?

Il Presidente francese Chirac – forse anche per dovere, essendo la Francia il paese che ospitava la conferenza – ha lanciato un appello da ultima spiaggia: “per il clima, stiamo avvicinandoci al punto di non ritorno”[1]. Forse lo abbiamo già superato – e probabilmente Chirac lo sa – ma non si può rischiare il crollo dell’economia: meglio correre il rischio d’affossare l’intera specie.

Per questa ragione – personalmente – sono molto pessimista sul futuro: nichilismo? Come si fa ad essere ottimisti quando – a fronte di mutamenti che appaiono oramai in tutta la loro evidenza anche all’uomo della strada – non si riesce a convincere la nazione che più inquina nel pianeta – gli USA – ad aderire al misero Protocollo di Kyoto, che per il clima è poco più di un’Aspirina che tenta di sconfiggere un febbrone da cavallo?

Il Protocollo è troppo “politico” affermano gli USA: in altre parole, se noi aderiamo perdiamo tot punti percentuali di crescita, tot valore del dollaro ed avvantaggiamo altri paesi. L’unica grande nazione che li appoggia è l’Australia: ora, esiste un appoggio più “politico” di quello australiano? Cos’hanno da spartire – sul piano meramente tecnologico ed industriale – gli USA e l’Australia? Forse perché l’Australia è il primo produttore mondiale d’Uranio? Qui stiamo giocando con la scatola dei fiammiferi seduti su una catasta di bidoni di benzina: come si può essere ottimisti?

“L’unica soluzione è la rivoluzione” si urlava nel ’68: dobbiamo riconoscere che – almeno per l’energia ed il clima – mai detto fu più vero. Ciò di cui abbisogniamo è una rivoluzione copernicana nel sistema d’approvvigionamento energetico: non si tratta di tornare al cavallo – non raccontiamo fesserie – ma di compiere un passo rivoluzionario cambiando mentalità. Meglio l’uovo oggi o la gallina domani? Se fossimo in grado di compiere quella rivoluzione, riempiremmo tutti i frigoriferi del pianeta di polli e di uova.

La prima cosa da fare è quindi diminuire costantemente e celermente le nostre emissioni di gas serra: comprendo che questo discorso assomiglia molto ad un aforisma di La Palisse, ma ci sono ancora tante persone che su questi semplici concetti hanno moltissimi dubbi.

Qual è l’errore di partenza, che non ci consente di risolvere il problema? La chimica del Carbonio.

Tutti sanno che alla base della vita c’è la chimica del Carbonio, la chimica organica: tutto ciò che è vivente è composto da catene di atomi di Carbonio. C’è però anche una chimica inorganica del Carbonio – ossia quella che trasforma, per esigenze energetiche, atomi di Carbonio in molecole di anidride carbonica – e, per nostra sfortuna, il Carbonio non si cura molto delle nostre distinzioni.

Da sempre, per produrre energia, utilizziamo questo “salto” energetico: passando dal Carbonio all’anidride carbonica otteniamo energia. Le forme della trasformazione? Moltissime. Si va dal semplice Carbonio dei carboni a quello del metano, fino ai composti organici – alifatici ed aromatici – contenuti negli idrocarburi liquidi.

Quella che chiamiamo “combustione” è la semplice trasformazione del Carbonio in un altro composto, l’anidride carbonica.

Purtroppo, secoli d’abitudine consolidata hanno creato un concetto che sembra inattaccabile: brucia qualcosa ed otterrai energia, altrimenti resterai al freddo.

Qualche “picconata” a questo concetto l’hanno data il nucleare e l’idroelettrico: lì non si “brucia” nulla eppure si ricava energia. L’idroelettrico fu la prima fonte d’energia elettrica, ma nel volgere di un secolo i consumi aumentarono al punto che oggi la fonte idroelettrica – nel pianeta – rappresenta pochi punti percentuale ed è sottoposta a forti rischi di recessione proprio a causa dei mutamenti climatici.

Molti analisti propongono il nucleare come la vera fonte energetica del futuro: in parte hanno ragione, ma solo in parte. L’IEA[2] – per il nucleare – stima che le riserve d’Uranio siano di circa 37 anni agli attuali prezzi e d’altri 47 a prezzi notevolmente superiori: il costo dell’Uranio dipende dalla percentuale di metallo utilizzabile nei minerali di partenza, ed oggi si ricava Uranio da minerali che ne contengono poco di più del 2%. Qualora dovessimo raffinare minerali con tenori d’Uranio ancora inferiori, di quanto salirebbe il costo di produzione dell’energia?

Inoltre, ciò che i sostenitori del nucleare non raccontano è che una centrale nucleare ha una vita media di 25 anni: trascorso quel periodo, bisogna provvedere ad una ristrutturazione che ricorda molto una ricostruzione, con costi (ed emissioni di CO2) non certo trascurabili.

Rimane sempre l’annoso problema delle scorie, sul quale non è nemmeno il caso di dilungarci.

Infine, di quanta acqua hanno bisogno gli impianti nucleari? Con gli allarmi lanciati a Parigi sui mutamenti che subirà il ciclo dell’acqua, ci affidiamo proprio ad essa per la produzione energetica? Usare l’acqua di mare? Certo, è possibile, ma si dovrebbero costruire circuiti di raffreddamento più costosi (a causa della corrosione) che durerebbero senz’altro di meno di quei famosi 25 anni. Sono soluzioni praticabili, ma sono convenienti?

L’ultima trovata per continuare a nascondere la testa sotto la sabbia riguarda il “confinamento” della CO2 che produciamo in vecchie miniere: addirittura – ad un convegno tenutosi nel 2003 al Politecnico di Milano – qualcuno prospettò di seppellirla in caverne sotterranee sotto la superficie dei mari, ad altissime profondità (per sfruttare l’alta pressione dovuta alla colonna d’acqua). Immaginiamo cosa significherebbe (e con quali costi!) riempire una caverna sottomarina sotto la Fossa delle Marianne.

Oggi – proprio in Italia e con il patrocinio, guarda a caso, dell’ENEL – l’idea torna a farsi avanti: il prof Enzo Boschi, geologo e direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), propone di riempire d’anidride carbonica alcune vecchie miniere, in Toscana ed in Sardegna.

L’idea sembra allettante: se produciamo troppa anidride carbonica, il “sovrappiù” lo stipiamo in vecchie caverne. Trionfalmente, si dichiara che saranno confinate dalle 3 alle 5.000 tonnellate il giorno di CO2, come già avviene in Canada.

Sembrerebbe l’uovo di Colombo: fine del problema dell’anidride assassina del clima? Quelle 4.000 tonnellate il giorno sembrano una montagna d’inquinanti che sparisce sotto terra: il problema è che una montagna non è nulla al confronto di un universo.

Quanta CO2 produciamo ogni anno, in Italia, per i consumi energetici?

Il consumo totale d’energia del Bel Paese è stimato in circa 190 MTEP – ossia Milioni di Tonnellate di Petrolio Equivalenti, laddove tutta l’energia viene quantificata come proveniente dal petrolio, anche se giunge da altre fonti – delle quali circa l’80% deriva dalla combustione dei fossili, mentre il resto lo importiamo oppure lo produciamo con l’idroelettrico e le scarse fonti rinnovabili.

150 milioni di tonnellate di combustibili fossili vengono bruciate ogni anno: quanta CO2 producono?

Calcolo un poco approssimativo – perché i combustibili non sono tutti uguali, perché dipende dalle condizioni di combustione, ecc – ma un rapporto di 1 : 3 è abbastanza vicino al reale[3]. Qualcuno sarà stupito, ma dobbiamo riflettere che ad ogni atomo di carbonio che bruciamo si legano due atomi d’Ossigeno, e quindi il prodotto della reazione (la CO2) pesa di più del solo Carbonio.

Questo è il vero cul de sac del problema: utilizzando questa reazione chimica per la produzione energetica, “intersechiamo” il ciclo del carbonio naturale (la produzione di CO2 dovuta alle reazioni naturali, alla respirazione, ecc ed il suo “consumo” da parte dei vegetali mediante la fotosintesi) con il ciclo “artificiale” che l’uomo ha creato, bruciando in un paio di secoli il materiale organico che la biosfera aveva “accumulato” in milioni di anni.

In altre parole, per avere sufficiente energia spendiamo tutto lo stipendio e prosciughiamo rapidamente il conto in banca. La proposta di Boschi sembra quindi andare nella giusta direzione: se produciamo un eccesso di CO2, “confinandola” risolveremmo il problema.

Supponiamo ora che l’impianto prospettato da Boschi funzioni perfettamente per 365 giorni l’anno ad una media di 4.000 tonnellate il giorno (1.450.000 tonnellate l’anno): siccome la produzione italiana annua di CO2 causata dalla combustione dei fossili è di circa 450 milioni di tonnellate, i buoni geologi riuscirebbero a “confinare” circa lo 0,3% della produzione nazionale di CO2. Solo Mussolini pensava di risolvere i problemi con il “confino”, e sappiamo come andò a finire.

Se proprio volessimo dare una chance all’idea dei geologi, potremmo considerare che la CO2 aumenta nell’atmosfera di circa 1,5 PPM l’anno, ossia pressappoco del medesimo 0,3%. In altre parole, gli impianti assorbirebbero l’aumento della CO2 probabilmente dovuto alle attività umane.

Dobbiamo però fare anche altre riflessioni: se non riusciamo a convincere il paese che più inquina – gli USA, che da soli producono il 40% dei gas serra – le nostre miniere servono a poco. Inoltre: siamo così certi che basti sottrarre quel piccolo eccesso per riportare il sistema in equilibrio?

Ragionamenti del genere possono essere fatti per sistemi chiusi e semplici: se metto 2 grammi di materiale in una provetta e ne tolgo uno ne rimarrà uno soltanto. Nel nostro caso, la “provetta” si chiama biosfera, dove milioni di reazioni biochimiche intervengono nel ciclo del carbonio, dalle profondità marine alla stratosfera: come possiamo essere certi che una semplice e bruta sottrazione possa risolvere il problema?

 

Qualcun altro aveva prospettato come risolvere il problema e lo aveva dimostrato: si trattava del solito inventore pazzo? Qualcuno che aveva studiato la Fisica in un corso per corrispondenza?

Non mi pare che si possano affibbiare queste categorie al prof. Rubbia, premio Nobel per la Fisica, ma sembra che nel Bel Paese ci sia l’abitudine – e scusate la franchezza – di gettare i Nobel nel cesso. Non bastava definire Dario Fo un “guitto” come fece Berlusconi – dimenticando che all’estero riscuoteva da decenni grandi successi, mentre in Patria la classe politica gli aveva gettato la rogna addosso – ed anche per Rubbia ci fu l’ostracismo, tanto è vero che oggi lavora in Spagna praticamente allo stesso progetto che desiderava realizzare in Italia. La classe politica dovrebbe ricordarsi dei suoi premi Nobel anche quando non servono per avere un voto in più al Senato.

Cosa proponeva Rubbia?

Da uomo di grande intelligenza qual è (un Nobel…) aveva facilmente compreso che il problema stava tutto in quella anomala “intersezione” fra il ciclo naturale del Carbonio e quello artificiale causato dall’uomo. La soluzione?

Semplice: affidarsi ad un metodo di produzione energetica che esulasse dal ciclo del carbonio, e stese le linee del suo progetto che prese il nome di “solare termodinamico”. Un impianto sperimentale doveva sorgere in Sicilia – presso Priolo – ed agire in sinergia con la locale centrale termoelettrica dell’ENEL.

Ecco come lo definì Rubbia stesso in un’intervista a La Repubblica:

 

"Come esperimento pilota i 20 megawatt aggiunti dalle tecnologie solari alla centrale di Priolo non sono da buttar via: bastano a una città di 20 mila abitanti, consentono di risparmiare 12.500 tonnellate equivalenti di petrolio l'anno ed evitano l'emissione di 40.000 tonnellate l'anno d’anidride carbonica. Il bello è che questo tipo di energia è conveniente: ai prezzi attuali, l'impianto si ripaga in 6 anni e ne dura 30. Oltretutto, una volta avviata la produzione di massa, i prezzi di costruzione tenderanno al dimezzamento".

 

In cosa consiste il “solare termodinamico”? Semplificando all’osso, un fluido circola all’interno di tubi i quali si trovano nel fuoco di lunghi specchi parabolici: una volta riscaldato ad altissima temperatura dai raggi solari, mediante uno scambiatore di calore genera vapore che aziona una turbina, la quale fa ruotare un alternatore che produce energia elettrica. Quali sono i costi? Sentiamo la risposta di Rubbia.

 

“Oggi, cioè in fase preindustriale, il costo complessivo dell'impianto oscilla tra i 100 e i 150 euro a metro quadrato. E da un metro quadrato si ricava ogni anno un'energia equivalente a quella di un barile di petrolio. Il che vuol dire che utilizzando un'area desertica o semidesertica di dieci chilometri quadrati si ottengono mille megawatt: la stessa energia che si ricava da un impianto nucleare o a combustibili fossili, ma con costi inferiori e con una lunga serie di problemi in meno"

 

Oggi – nonostante i mille bastoni fra le ruote che ENEL ed ENI lanciano in continuazione – il progetto viene portato avanti dall’ENEA nel centro sperimentale della Casaccia: i ricercatori sono giunti a quantificare anche il costo di produzione di un KW con quel sistema, circa 6 centesimi di euro[4], contro i 6 del nucleare ed i 7 del petrolio.

Costi inferiori si hanno soltanto con il carbone (4 centesimi, ai quali però va aggiunta la cosiddetta “carbon tax” che lo porta a circa 5) e l’eolico che – negletto e dimenticato – produce un KW a 3-4 centesimi senza produrre un solo grammo di CO2, come il solare termodinamico.

Sappiamo che in Italia le aree adatte per l’eolico non sono tante – Liguria, Sicilia e Sardegna – ma non utilizziamo nemmeno quelle! Noi, invece, pensiamo che la soluzione sia continuare a bruciare i fossili ed “acchiappare” la CO2 per “sbatterla” in miniera: un ragionamento da stato di polizia. Abbiamo estese aree – nel Mezzogiorno – che hanno scarso valore agricolo e che potrebbero essere proficuamente utilizzate (con benefiche ricadute economiche sulle popolazioni!) per la produzione energetica con il solare termodinamico. Invece, diamo un calcio nel sedere a Rubbia, che viene accolto a braccia aperte in Spagna.

 

Il problema, come ricordavo, è quello di un profondo mutamento nella produzione energetica (se ancora ne abbiamo il tempo!) per contrastare fenomeni che non sappiamo dove ci condurranno. E’ già troppo tardi? Può darsi: ciò nonostante, è nostro dovere – per il rispetto che dobbiamo alle future generazioni – fare tutto ciò che è in nostro potere per “raddrizzare” la situazione.

La discriminante di chi compie un atto rivoluzionario – in ambito energetico – è quella fra chi propone di curare il cancro alla radice (ossia cambiare l’approvvigionamento energetico) e chi consiglia invece di curare il tumore con i pannicelli caldi, ossia con il Protocollo di Kyoto (il 5% di riduzione della CO2 in 10 anni, e che cosa è?) oppure con le idee fantasiose come il “confino”. In quest’ottica, dobbiamo riconoscere che gli sgravi fiscali concessi in Finanziaria a chi installa collettori solari per la produzione d’acqua calda vanno nella giusta direzione, perché diminuiscono la produzione di gas serra: è poca cosa, ma il 3% dell’energia che utilizziamo serve soltanto per scaldare l’acqua per uso sanitario.

 

C’è abbastanza energia per soddisfare le necessità umane? Secondo Rubbia sì, e credo che a Rubbia si possa almeno concedere una cambiale in bianco.

La stessa divisione delle energie rinnovabili dell’ENEL – Enelgreenpower – dichiara che le risorse eoliche “disponibili ed utilizzabili nel mondo sarebbero in grado di fornire una produzione di circa quattro volte superiore ai totali consumi elettrici mondiali del 1998. Questo potenziale potrebbe essere ulteriormente accresciuto dallo sviluppo di installazioni off-shore, collocate al largo delle coste”. Peccato che Scaroni faccia finta di non saperlo.

Lo stesso concetto è stato ribadito più volte dal Dipartimento USA dell'Energia e dall’Università di Stanford: “nei soli Nord Dakota, Kansas e Texas si potrebbe ricavare con la fonte eolica l’intero fabbisogno statunitense”.

La fonte solare è ancora più abbondante: se il consumo totale d’energia del pianeta ammonta a circa 10 miliardi di TEP, il sole ne invia costantemente e gratuitamente 5.500 miliardi di TEP sulle sole aree desertiche del pianeta! Riflettiamo un attimo su quanto siamo miseri: stiamo qui a scannarci per quattro fichi secchi (10 miliardi di TEP) quando il sole ne invia sui deserti inutilizzati 550 volte tanto!

Non abbiamo i mezzi per captare l’energia? Non è vero: se il sistema fotovoltaico è ancora un po’ caro (ma in molte situazioni prezioso) con il solare termodinamico e l’eolico non avremmo più alcun problema!

A questo punto prendono forma due distinti problemi, uno tecnico e l’altro politico, con le ovvie interdipendenze che esistono – e che i politici fanno finta di non vedere – fra tecnologia e politica.

Per prima cosa, alcuni politici paventano terremoti finanziari qualora operassimo queste scelte: gli stati del Golfo Persico ritirerebbero i copiosi investimenti che da decenni hanno in Occidente.

Bene: per questa ragione non dovremmo più aprir bocca? Dovremo arrivare alla camera a gas planetaria per soddisfare gli sceicchi del petrolio?

Non sarebbe più intelligente prospettare loro una compartecipazione alle nuove imprese energetiche, ossia l’installazione di sistemi solari nei deserti del Medio Oriente? Sono convinto che – dovendo scegliere fra il rischio di un’Europa coperta di pannelli solari ed una compartecipazione agli utili – sceglierebbero saggiamente la seconda strada. Notiamo che questo modello sarebbe una stabilizzazione per il pianeta, non più soggetto alle guerre petrolifere per un bene che per i due terzi si trova soltanto sulle rive del Golfo Persico. Non si desidera “liberalizzare”? “Globalizzare”? Il sole c’è a Ryad come a Khartoum, a Tripoli come a Lima: cosa c’è di più “liberalizzante”?

L’aspetto tecnologico riguarda invece la distribuzione e lo stoccaggio dell’energia: come tutti sanno, l’energia elettrica non è immagazzinabile se non in modeste quantità. Qui, entra in gioco l’Idrogeno.

Se qualcuno ritiene l’Idrogeno il futuro sostituto del metano è fuori strada: il secondo è un semplice idrocarburo fossile gassoso, mentre il primo è un gas che deve essere prodotto artificialmente. Per questa ragione, spesso, l’Idrogeno viene identificato non come una fonte ma come un “vettore” energetico: entrambi, però, possono essere immagazzinati.

Le differenze fra i due gas sono però sensibili: l’Idrogeno è molto reattivo, che tradotto in termini più semplici significa che è molto corrosivo e che tende ad esplodere se non sottoposto a rigide norme di sicurezza. Non è quindi una buona idea – quella che talvolta si sente prospettare – distribuire Idrogeno come nella comune rete del metano: potremmo attenderci un numero di incidenti domestici dieci volte più alto di quello attuale, anche aumentando le misure di sicurezza.

La soluzione è semplicissima: il futuro modello energetico è un sistema prevalentemente elettrico, dove l’Idrogeno funge soltanto da riserva energetica, mentre verrebbe distribuita energia elettrica per tutti gli usi, domestici ed industriali. Ovviamente, tutta la materia fiscale in campo energetico dovrebbe essere rivista.

Per le auto, apposite stazioni di servizio trasformerebbero l’energia elettrica in Idrogeno gassoso per riempire i serbatoi a pressione, come per l’alimentazione a metano. Solo per gli aerei[5] sarebbe necessario ricorrere alla liquefazione dell’Idrogeno, poiché nella liquefazione si trasforma in calore il 32% dell’energia immessa: dove non è necessario farlo, non c’è motivo di crearsi il problema. Si stanno già sperimentando non solo auto, ma navi e treni che funzionano con il sistema Idrogeno/cella a combustibile: perché vogliamo correre degli inutili rischi climatici quando possediamo tutta la tecnologia per cercare, almeno, di scapolare quei pericoli?

Il passaggio dall’energia elettrica all’Idrogeno è fattibile, conveniente, pratico?

Si può produrre Idrogeno mediante l’elettrolisi impiegando energia elettrica, e riottenere energia elettrica dall’Idrogeno mediante le celle a combustibile[6]. Quali sono i rendimenti?

Pressappoco del 75% in entrambi i casi, vale a dire che per ogni trasformazione andrebbe perduto (ma sotto forma di calore, e quindi potenzialmente recuperabile) un quarto dell’energia primaria.

Non sarebbe una chimera immaginare un sistema di produzione elettrica affidato al solare termodinamico ed all’eolico – non trascurando certo altre fonti “no CO2” come l’idroelettrico ed il geotermico – ed un sistema di stoccaggio nei comuni gasometri, in aree decentrate, per l’Idrogeno.

Fra l’altro, un simile metodo avrebbe il consistente vantaggio di produrre energia elettrica praticamente “on demand”, ossia senza dover produrre dei surplus (come oggi avviene) per avere sufficienti riserve nel caso d’improvvisi aumenti della richiesta. In sostanza, le celle a combustibile sono più elastiche delle centrali termiche e riescono a variare la produzione in intervalli di tempo minori: qui ci sarebbero notevoli risparmi.

Qualcuno potrebbe obiettare che con due trasformazioni Idrogeno/energia elettrica si perderebbe circa il 40% dell’energia primaria, ma vorremmo ricordare che il più economico motore automobilistico non supera un rendimento del 40%, così come le centrali termoelettriche, che sono senza dubbio ben al di sotto di questo valore.

Infine, all’ENEA stanno già sperimentando come produrre Idrogeno sfruttando alcune reazioni chimiche e le alte temperature del solare termodinamico, con un consistente aumento dei rendimenti.

Il sistema Idrogeno/elettrico è dunque – sotto il profilo del rendimento – se non superiore almeno uguale a quello termoelettrico: la differenza? Non si produrrebbe CO2 e si risolverebbe definitivamente il problema energetico, almeno fin quando il nostro astro deciderà d’inviarci energia. I costi – chiariti da Rubbia per il solare termodinamico e noti da tempo per l’eolico – sono quelli della fascia più bassa dei combustibili fossili.

 

Il problema italiano è convincere i nostri “dipendenti” ad iniziare a lavorare seriamente e speditamente sul problema: se vogliamo fare anche qualche misero conto “di bottega”, potremmo affermare che l’Italia – con il solare termodinamico – schizzerebbe in pole position in un settore tecnologico d’avanguardia.

Dopo i cinque anni di Berlusconi – dove non s’è fatto nulla se non blaterare a vanvera ed inutilmente sul ripristino del nucleare (in quanti anni? Calpestando il referendum? Arrivandoci poi quando gli altri l’avranno già superato?) – il governo Prodi ha varato qualche misura che va nella giusta direzione, ma siamo quasi fuori tempo massimo: ci vuole un cambiamento rapido e radicale, altrimenti le dichiarazioni di Chirac (che è persona di destra ma molto seria) non avrebbero senso. E’ troppo chiedere che facciano una telefonata all’Eliseo per chiedere spiegazioni? Vogliamo smetterla di sottostare ai desiderata di Scaroni? Quando faranno partire il primo impianto produttivo con il solare termodinamico? Quando metteranno mano alle leggi per consentire ai consorzi di cittadini (con la partecipazione delle banche) di diventare produttori d’energia con l’eolico?

Siamo nella condizione di chi sta appiccando il fuoco alla propria casa per riscaldarsi: la vogliamo fare sì o no questa rivoluzione?


 

[1] Fonte: ANSA.

[2] Nuclear Energy Agency (sezione dell’IEA) – I dati sono stati pubblicati da http://www.aspoitalia.net.

[3] Per una più approfondita analisi sulla produzione di gas serra dalla combustione dei fossili, vedi C. Bertani – Energia, natura e civiltà: un futuro possibile? – Giunti – 2003.

[4] Il programma ENEA sull’energia solare a concentrazione ad alta temperatura – (csp. pdf) – dicembre 2006.

[5] Vedi il progetto Cryoplane, finanziato dall’UE e condotto dall’EADS (L’Agenzia Europea per la Difesa e lo Spazio).

[6] Il rendimento è riferito alle celle alcaline.

 

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