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“Ho avuto una mirabile visione. Ho fatto un sogno; tale che non basta il senno umano a spiegare com'era: c'è da fare una figura ciuca a tentar d'interpretare questo sogno.”
William Shakespeare, Sogno d'una notte di mezza estate, Atto IV Scena 1°
Da qualche mese sembra che, sull’emergenza del mutamento climatico, la fretta regni sovrana: allarmi su allarmi sono lanciati da molti consessi internazionale, dall’IPCC (che è il referente dell’ONU per il problema) a molte istituzione universitarie e di ricerca. Verrebbe da dire: sarebbe stato meglio pensarci qualche anno or sono.
Oggi, si dà per scontato che il mutamento è in atto e che coinvolgerà pesantemente la vita delle future generazioni: scarsità d’acqua, desertificazione, sparizione di migliaia di specie viventi.
I fenomeni che si svilupperanno nei prossimi decenni, però, non si limiteranno al solo mutamento climatico ma saranno tre, e concomitanti.
Il primo riguarda proprio la variazione delle temperature – che non sappiamo se si risolverà in un semplice aumento delle temperature, poiché potrebbe avvenire anche l’esatto opposto – sul quale si lanciano pesanti allarmi, e la conseguente scarsità d’acqua.
Il secondo fenomeno sarà il progressivo esaurirsi delle fonti fossili d’idrocarburi: circa mezzo secolo, Uranio compreso. Poi rimarrà il carbone, ma utilizzando il carbone come fonte energetica del pianeta s’andrebbe ad aggravare – e molto pesantemente – la già critica presenza di gas serra nell’atmosfera.
Il terzo aspetto – poco dibattuto – riguarda la crisi degli stati nazionali: chi dovrebbe (e sarebbe in grado) di prendere decisioni rivoluzionarie? I singoli stati, obbligati a rispettare le direttive sopranazionali, oppure gli organismi sopranazionali che sono, a loro volta, spesso bloccati dai veti dei singoli stati? In Europa la situazione è sotto gli occhi di tutti, ma anche negli USA (ricordiamo la liberalizzazione elettrica in California) il problema è avvertito.
Tre fenomeni interdipendenti che contribuiranno – in simbiosi – a modellare la vita delle future generazioni: siamo ancora in tempo per correre ai ripari? Nessuno lo sa.
Chiariamo che il pianeta Terra troverà comunque un equilibrio: bisognerà verificare se il nuovo “equilibrio” sarà ancora coerente con la nostra “presenza” nel pianeta. I rischi sono noti: estese ed imprevedibili migrazioni, carenze d’energia e d’acqua potranno scatenare guerre ed invasioni che oggi non possiamo prevedere.
E’ stato fatto tutto il possibile? A questa domanda possiamo rispondere senza ombra di dubbio: no.
Se il problema dell’approvvigionamento energetico è senz’altro complesso, e richiederebbe intricate trattative internazionali per giungere a soluzione, tutti sappiamo che le aree urbane sono assalite – oramai da decenni – dal problema dell’inquinamento atmosferico dovuto alle cosiddette “polveri sottili”.
Responsabili del fenomeno sono principalmente il riscaldamento delle abitazioni ed il traffico automobilistico: l’unica soluzione trovata, per ora, sono state le cosiddette “domeniche a piedi”, che il lunedì successivo riportano tutto al punto di partenza.
Oltre all’inquinamento delle aree urbane, non dimentichiamo che il mondo del trasporto (persone e merci) è responsabile per circa 1/3 delle emissioni gassose (soprattutto CO2) che modificano il clima.
Correndo appresso ad un’emergenza, e poi a quella successiva, nessuno ha meditato di risolvere il problema del traffico alla radice. Risolverlo, però, avrebbe coinvolto gli altri attori della vicenda, ossia il mondo del petrolio e le istituzioni, dai comuni fino all’Unione Europea.
Tutti abbiamo sentito parlare dell’Idrogeno come del salvatore del traffico: il nuovo carburante – che non produce gas serra – ci salverà! Nel frattempo, però, mentre navighiamo a vista fra un’emergenza e l’altra, nessuno s’è preso la briga di spiegarci come iniziare a fare qualcosa in quella direzione.
A dire il vero, le case automobilistiche hanno da tempo iniziato a produrre studi e prototipi funzionanti ad Idrogeno ma si sono scontrate con il deserto: da un lato le compagnie petrolifere (proprietarie o, comunque, “deus ex machina” della rete distributiva dei carburanti), dall’altra le istituzioni che sarebbero dovute intervenire con piani d’intervento, leggi, direttive.
Tutto ciò che rimane sono i pochi prototipi presentati dalle case automobilistiche e qualche distributore – sparso per l’Europa – che dovrebbe rifornire auto mai giunte realmente sul mercato. Un notevole “flop”.
L’aspetto curioso e deprimente della vicenda è che, per quanto riguarda l’auto ad Idrogeno, essa fa capo a tecnologie che in molti casi superano il secolo.
Sull’auto ad Idrogeno bisogna precisare che ne esistono di due diversissimi modelli, quasi due diverse “specie”: le auto dotate di motore a ciclo Otto (il comune motore a benzina) e quelle che s’affidano, per la trazione, ad un motore elettrico.
Entrambe non producono inquinanti – giacché il solo prodotto di reazione fra l’Idrogeno e l’Ossigeno è la comune acqua – ma divergono, e parecchio, sotto l’aspetto dei rendimenti: qui s’innesta il problema dell’esaurimento delle fonti fossili.
E’ del tutto evidente che produrre Idrogeno utilizzando gli idrocarburi (ad esempio il metano) è una via senza sbocco, visto che saranno proprio gli idrocarburi a mancare: con le fonti rinnovabili (le uniche che rimarranno!) avremo però a disposizione energia elettrica.
Le altre possibilità per produrre Idrogeno sono l’elettrolisi – ossia la scissione dell’acqua, che però richiede energia elettrica ed ha un rendimento del 75% circa – e la produzione diretta d’Idrogeno mediante reazioni chimiche, che però richiedono alte temperature (ossia l’immissione d’energia sotto forma di calore).
L’ENEA sta studiando – a margine del programma sul solare termodinamico – metodi e processi per utilizzare le alte temperature, generate dalla concentrazione dei raggi solari, al fine di produrre Idrogeno con metodi chimici. Siamo, per ora, ad una fase sperimentale, mentre il solare termodinamico per produrre energia elettrica è già oggi una tecnologia matura.
Un secondo problema riguarda la distribuzione dell’Idrogeno: rifornire le stazioni di servizio d’Idrogeno gassoso con tubazioni sotterranee richiederebbe investimenti onerosi (e chi dovrebbe investire? Le compagnie petrolifere? Lo Stato?), mentre la liquefazione dell’Idrogeno – per distribuirlo mediante autobotti – comporterebbe d’usare il 32% dell’energia primaria (ossia il 32% dell’Idrogeno) per liquefare il gas. E’ pur vero che, comprimendo l’Idrogeno per liquefarlo, si genererebbe calore che potrebbe essere recuperato, ma è difficile valutare fino a che punto il gioco varrebbe la candela. La distribuzione dell’Idrogeno gassoso mediante una complessa rete ipogea, invece, presenterebbe dei problemi di sicurezza: l’Idrogeno, dal punto di vista chimico, è corrosivo e molto reattivo.
L’ipotesi forse più praticabile consisterebbe nel distribuire non Idrogeno, bensì energia elettrica e generare il gas nelle stazioni di servizio mediante elettrolisi: il processo elettrolitico è conosciuto da più di un secolo e non dovrebbe essere un gran problema costruire impianti elettrolitici altamente automatizzati e sicuri.
Ovviamente, non potremmo attenderci una rete distributiva capillare come quella odierna: le aree di servizio si troverebbero per lo più nelle aree periferiche, mentre sarebbero poche – data la complessità di generare Idrogeno in ogni stazione di servizio – quelle in area prettamente urbana. Un sistema misto potrebbe condurre alla generazione d’Idrogeno nelle aree periferiche, per poi rifornire poche stazioni di servizio in area urbana mediante condotte ipogee. Non sarebbe però questo il problema principale, giacché la rete distributiva dei carburanti è già oggi sovradimensionata.
Una volta giunti al distributore, quale tipo d’autovettura andremmo a rifornire?
Già oggi sarebbe possibile alimentare ad Idrogeno i comuni motori a benzina, come avviene per le auto che usano il metano: si tratterebbe soltanto di dimensionare adeguatamente le bombole dell’autovettura e d’operare alcune trasformazioni nei propulsori, ma il sistema sarebbe sostanzialmente simile a quello della distribuzione del metano.
Il problema è che il motore a combustione interna non ha un rendimento elevato: a grandi linee, trasforma in energia meccanica soltanto il 35% dell’energia immessa. Il resto, viene disperso sotto forma di calore dal radiatore.
Purtroppo, questa è una caratteristica precipua di quel tipo di motore: le alte temperature sono necessarie per ottenere una rapida espansione dei gas – nella camera di combustione – prima dello scoppio.
La primogenitura dell’auto ad Idrogeno – quasi un paradosso – è italiana, mentre oggi siamo rimasti parecchio indietro in questo campo.
L’ingegner Massimiliano Longo[1], negli anni ’70 del Novecento, non solo progettò ma costruì e presentò alle case automobilistiche una Alfa Romeo 1300 GT modificata per funzionare ad Idrogeno. Il gas era stoccato in bomboloni nel bagagliaio e nel motore erano state effettuate alcune modifiche per utilizzare il nuovo carburante. L’ingegner Longo giunse a produrre con mezzi propri l’Idrogeno necessario per via elettrolitica e presentò il prototipo alle case automobilistiche nazionali, ottenendo sì ampi riconoscimenti verbali, ma nessun risultato pratico in termini di sviluppo del progetto.
L’auto funzionava perfettamente, anche se le prestazioni erano inferiori al modello a benzina giacché – come riconobbe lo stesso Longo – le modifiche apportate al propulsore (rapporto di compressione, tipo di pistoni, ecc.) non erano sufficienti ad ottimizzare il mezzo per il nuovo carburante. Per avere le stesse prestazioni, sarebbe stato necessario ri-progettare completamente il propulsore: esattamente ciò che avrebbe fatto la BMW decenni dopo.
L’auto però, anche se di produzione artigianale, consumava poco carburante e non inquinava assolutamente, essendo l’unico gas di scarico l’innocuo vapore acqueo: il costo chilometrico era irrisorio rispetto al modello a benzina, ma qui ricordiamo che è difficile fare paragoni, giacché i carburanti sono gravati d’imposte per circa il 60%.
Successivamente, la casa tedesca BMW ha sperimentato parecchio in questo campo, modificando alcuni modelli a benzina della nota serie “5”, così come hanno attuato Mercedes ed Opel: sono auto perfettamente funzionanti, ma non sono ciò di cui avremo bisogno. Perché?
Poiché non potremo più permetterci rendimenti del 35%: l’era dei carburanti a basso costo (ed in grandi quantità) finirà con l’esaurimento dei combustibili fossili. Si cambia strada.
Le aziende guardano oltre ed è già in commercio in California – dal 2003 – la Honda-FCX, un’auto elettrica alimentata ad Idrogeno con trasformazione del gas in energia elettrica tramite celle a combustibile. L’auto ha un motore da 60 KW e serbatoi che possono contenere 156 litri d’Idrogeno compresso, l’autonomia è pari a circa 350 Km e la punta massima di velocità è di 150 Km/h.
Come si potrà notare, le prestazioni sono perfettamente in linea con gli standard dei modelli a benzina/diesel attualmente circolanti, e siamo soltanto agli inizi.
Anche Mitsubishi e General Motors hanno presentato modelli funzionanti con il binomio motore elettrico/cella a combustibile, ma manca la rete di distribuzione dell’Idrogeno, e siamo da capo con gli aspetti economici e normativi del problema.
Quale potrebbe essere l’auto del futuro, tralasciando per ora le ipotesi più fumose e limitandoci a ciò che potrebbe essere costruito con le tecnologie già mature? Sarebbe un’auto rivoluzionaria e molto parca nei consumi: lo potrebbe essere già oggi – non fra qualche decennio – e, anzi, sarebbe già potuta nascere ieri.
Le celle a combustibile sono un’invenzione della metà del ‘900: tutte le missioni spaziali utilizzavano quella tecnologia per produrre l’energia elettrica necessaria, ed il film “Apollo 13” ha evidenziato bene come l’incidente che mandò a monte la missione provocò proprio la perdita dei gas necessari alla reazione. Ma, come funziona una cella a combustibile?
Essenzialmente, sfrutta la semplice reazione che, da Idrogeno ed Ossigeno, forma acqua: questa reazione produce energia e la cella a combustibile è in grado di trasformare l’energia chimica in energia elettrica.
Esistono molti tipi di celle a combustibile: quelle che attualmente hanno il miglior rendimento sono le celle di tipo alcalino, che trasformano il 75% dell’energia immessa (Idrogeno) in corrente elettrica, mentre il rimanente 25% si trasforma in calore.
Siamo già un passo avanti rispetto al tradizionale motore a benzina – il 75% contro il 35% – ma nel nuovo mondo, privo di combustibili fossili, dovremo supplire con la tecnologia e cercare di recuperare anche ciò che prima si sprecava. A ben vedere, non si tratta di un problema tecnologico, bensì di un diverso approccio: sappiamo che l’energia non va mai perduta ma si trasforma. Ebbene, dobbiamo soltanto imparare ad “intercettare” i flussi che si trasformano, giacché nulla si “spreca”.
La struttura di un’auto elettrica è sostanzialmente diversa da un’auto attuale, ad iniziare proprio dal propulsore.
Un comune motore automobilistico non esprime mai la massima potenza: in genere, la potenza realmente utilizzata corrisponde al 60% di quella massima, il cosiddetto “regime di coppia massima”. Quando guidiamo in autostrada con una media cilindrata, la velocità di crociera di circa 130 Km/h corrisponde a 3500-4000 giri del propulsore, ma sappiamo che il massimo regime di rotazione (la potenza massima) si aggira intorno ai 5500-6000 giri.
Superando quel regime di crociera, il rendimento del motore diminuisce notevolmente e si sottopone il propulsore stesso ad un notevole stress meccanico.
Di conseguenza, una media cilindrata con 45 KW di potenza massima, ne sfrutta normalmente soltanto 30.
Il propulsore elettrico non ha invece queste limitazioni, poiché è strutturalmente molto semplice rispetto al motore a ciclo Otto: un avvolgimento di fili elettrici che ruota avvolto in quello che viene definito “rotore”, circondato da una semplice carcassa esterna. A fronte della complessità del primo (valvole, bielle, pistoni, ecc) abbiamo soltanto un rotore che gira su cuscinetti a sfere.
Anche il rendimento è molto diverso: un motore elettrico trasforma in energia meccanica più del 90% dell’energia immessa: considerando entrambi gli aspetti, al posto del 45 KW del motore a ciclo Otto, ne bastano 30 per l’auto elettrica.
Un secondo aspetto riguarda i pesi: il peso di un motore a benzina/diesel è circa il doppio o il triplo rispetto ad un corrispondente motore elettrico; non ci sono inoltre il radiatore, l’impianto d’alimentazione (carburatore od iniettori), il pesante albero motore che ruota nel basamento e la sottostante coppa.
Insomma, il motore elettrico è notevolmente più leggero, sia per la sua struttura, sia per i molti supporti periferici dei quali non ha bisogno.
Per contro, il motore elettrico/celle a combustibile comporta che ci sia l’apparato d’alimentazione (le celle a combustibile) e quello di stoccaggio dell’energia prodotta, ossia i comuni accumulatori (batterie).
Ne risulta che la progettazione di un’auto di questo tipo sovverte tutte le regole finora applicate nella costruzione degli autoveicoli: quasi nullo il peso del propulsore, scarso quello delle celle a combustibile, ma nuovi ingombri per le bombole dell’Idrogeno e per il “banco” d’accumulatori.
Il modello presentato da General Motors è forse il più avveniristico, quello che più si distanzia dalla progettazione tradizionale: tutti gli apparati sono contenuti in una struttura “a sogliola” alta solo 26 cm che è situata sotto il pianale dell’autovettura.
Anche la distribuzione dei pesi è sostanzialmente diversa: siccome le parti meccaniche in movimento pesano poco, per garantire stabilità al veicolo (basso baricentro) si sfrutta il peso degli accumulatori, collocandoli in basso. A ben vedere, questo tipo d’autovettura trae più elementi strutturali dai sommergibili che dalle auto tradizionali: forse torneremo al telaio tradizionale e non alle carrozzerie portanti, e questa impostazione potrebbe condurre ad allungare – e di parecchio – la vita di un’autovettura sostituendo soltanto, man mano, i pezzi deteriorati.
Siamo soltanto agli inizi: ricordiamo che le prime automobili erano sostanzialmente delle “carrozze a motore”, e ci volle quasi mezzo secolo perché l’autovettura dimenticasse completamente il suo archetipo, la carrozza a cavalli.
Il bilancio energetico dell’auto con motore elettrico/celle a combustibile è senz’altro interessante: possiamo osservare nella tabella le varie ipotesi a confronto fra l’automobile a benzina, quella tradizionale ad Idrogeno e quella elettrica/celle a combustibile.
Il bilancio energetico è favorevole al motore elettrico – anche se del solo 3% – notiamo però che non sono stati presi in considerazione – per l’auto a benzina/diesel – i costi di distribuzione del carburante, difficilmente quantificabili data la complessità della rete di distribuzione.
Un aspetto interessante ed innovativo – nell’ottica di “intercettare” i flussi d’energia invece di sprecarli – sarebbe quello d’utilizzare il calore prodotto dalla cella a combustibile, che deve funzionare a temperature elevate.
Nella stagione fredda, sarebbe pratico utilizzare quel calore per il riscaldamento dell’autovettura: e d’estate? Per far funzionare il climatizzatore, sarebbe necessario ricorrere all’energia elettrica degli accumulatori e, in definitiva, alla scorta d’Idrogeno. A meno che…
A meno che non si riesca a recuperare l’energia termica dispersa dalle celle a combustibile per trasformarla in energia elettrica. Come?
Temperature dell’ordine di 100-200 gradi centigradi non possono essere utilizzate per riscaldare dell’acqua, ma esistono fluidi che hanno punti d’ebollizione più bassi, come quelli utilizzati nei circuiti frigoriferi e nei climatizzatori.
La tecnologia dei fluidi a basso punto d’ebollizione non è la frontiera della ricerca: da almeno 60 anni produciamo frigoriferi. Un circuito completamente sigillato, dove il fluido sarebbe riscaldato dal calore della cella a combustibile e recuperato mediante una semplice turbina/alternatore sotto forma d’energia elettrica, non è una chimera. A margine, notiamo che con la stessa tecnologia sarebbe possibile recuperare parecchia energia, oggi sprecata, dai grandi impianti di climatizzazione centralizzati.
Ancora una volta, non sono i limiti tecnologici a frenarci, ma la pessima impostazione che perduriamo a replicare: ciò che non serve “è sprecato”.
L’auto elettrica presenta fortunatamente molteplici vantaggi e notevoli potenzialità evolutive: la prima e più immediata è che l’auto elettrica, ferma ad un semaforo, non consuma nulla. Da uno studio effettuato nel 2006[2], si evince che circa 4 miliardi di euro di carburanti per autotrazione sono sprecati ogni anno nei motori che ruotano con automezzo fermo; semafori, rallentamenti, “code” autostradali dovute ad incidenti, cantieri o per il semplice traffico: riflettiamo che sono cifre da legge finanziaria! La bolletta energetica italiana prevista per il 2007 è di 48 miliardi di euro, dei quali 24 rappresentano le importazioni di petrolio[3]: 4 miliardi di euro rappresentano 1/6 sul totale delle importazioni petrolifere! Il 16% del petrolio che importiamo lo bruciamo mentre siamo fermi in coda!
Il ciclo urbano, con frequentissime accelerazioni e frenate, è una vera e propria idrovora d’energia: riflettiamo che, per portare un’autovettura del peso di 900 Kg alla velocità di 100 Km/h, dobbiamo fornire circa 350 KJ, che equivalgono a circa 100 grammi di petrolio. Con cinque accelerazioni da 0 a 100 Km orari se ne va in fumo quasi un litro di benzina: quante accelerazioni compie annualmente l’intero parco automobilistico mondiale?
Se, invece, vogliamo arrestare l’autovettura, i freni dissiperanno sotto forma di calore la stessa quantità d’energia. Qui, l’auto elettrica segna un notevole punto a suo favore.
Proprio la semplicità del propulsore elettrico, consente d’utilizzare la frenatura elettrica: semplificando al massimo, il pedale del freno fa ruotare il motore di trazione che – rallentando l’autovettura con il “freno motore” – genera energia elettrica che ricarica gli accumulatori. Per le frenate d’emergenza, la parte finale della corsa del pedale aziona un comune freno a disco.
Il recupero d’energia mediante il freno elettrico consentirebbe di recuperare quantità immense d’energia, soprattutto nel ciclo urbano e sul cosiddetto “misto”, ovvero in presenza di salite e discese.
Difficile quantificare l’energia che si andrebbe a recuperare – come avrebbero potuto, all’epoca della trazione a cavalli, definire nei particolari l’efficienza della ferrovia o del motore a scoppio? – poiché qui entrano in gioco gli attriti, il tipo di percorso, la frequenza delle accelerazioni/decelerazioni, ma sarebbe senz’altro un cospicuo risparmio.
Notiamo che il freno elettrico viene già utilizzato per alcuni tipi di carrelli elettrici, proprio per aumentarne l’autonomia: è tecnologia attuale – già sfruttata da aziende che operano sul mercato – non siamo alla semplice fase di ricerca o di prima industrializzazione del prodotto.
L’altro, significativo risparmio energetico dell’auto elettrica è quello più taciuto: la ricarica mediante pannelli fotovoltaici.
Gli attuali pannelli fotovoltaici sono ancora costosi e quindi scarsamente convenienti per la produzione elettrica di massa mentre, se applicati su un’autovettura – dato il maggior costo del rifornimento – sarebbero convenienti. Vediamo un esempio.
Un’autovettura elettrica con motore da 30 KW – in pratica un’utilitaria – con 3 m2 di celle fotovoltaiche, quanta energia accumulerebbe?
La radiazione solare varia molto da luogo a luogo e da una stagione all’altra, ma un valore medio di 800 Watt/m2 viene comunemente accettato. Le celle fotovoltaiche, attualmente, riescono a trasformare in energia elettrica il 14% della radiazione solare[4]: presto raggiungeremo il 17%, ma restiamo con i piedi per terra e valutiamo gli attuali rendimenti.
Un complesso fotovoltaico di 3 m2 riceverebbe 2.400 Watt/h che, con un rendimento del 14%, consentirebbero d’immagazzinare circa 336 Watt/h. Se consideriamo un valore medio d’irraggiamento solare pari a 10 ore[5], ogni giorno il sistema immagazzinerebbe circa 3,5 KW.
Con 3,5 KW, il motore da 30 KW/h potrebbe spingere l’autovettura alla massima velocità per circa 7 minuti: considerando una velocità massima non elevatissima – circa 120 Km/h – sarebbero circa 17 Km il giorno percorsi gratis, grazie al sole.
Se consideriamo una percorrenza media di 15.000 Km annui, 17 chilometri il giorno regalati dal sole consentirebbero all’autovettura di compiere 6.200 chilometri gratis: circa il 40%!
Quali sarebbero i costi? Difficile scendere in particolari, ma saremmo comunque nell’ordine del migliaio di euro, poco di più o poco meno. Mille euro all’acquisto, per percorrere 6.000 chilometri l’anno gratis! Non ci sono altri commenti da fare.
Ovviamente, siamo in presenza di calcoli teorici: ci vorrebbe una seria fase di sperimentazione, ma le premesse ci sono tutte.
Consideriamole complessivamente:
Anche ad essere molto, ma veramente molto pessimisti, questo tipo d’autovettura consumerebbe meno della metà dell’energia che oggi dobbiamo immettere nel serbatoio di una comune autovettura benzina/diesel!
Difficoltà di tipo tecnologico? Niente di sconosciuto o d’insormontabile. La trazione elettrica con celle a combustibile viene già utilizzata per i sottomarini, il recupero dell’energia in frenata nei comuni carrelli elettrici, le celle fotovoltaiche sono sul mercato, la tecnologia dei fluidi a basso punto d’ebollizione ha già di più di mezzo secolo.
Chi e che cosa si frappongono, fra questo realistico “sogno ad occhi aperti” e la vera realtà?
Un coagulo d’interessi convergenti ed un pessimismo imperante: da un lato lo sterile “pianto da coccodrilli” per la salute del pianeta, dall’altro la ferrea chiusura ad ogni forma d’innovazione che ci consentirebbe di risolvere definitivamente quei problemi.
Prendiamo in esame l’industria automobilistica italiana: la concorrenza interna è pari a zero. Tutto, nel volgere dell’ultimo mezzo secolo, è diventato FIAT. Chi potrebbe permettersi di lanciare sul mercato una nuova “specie” d’autovetture?
Eppure, la falsa sicurezza che si respira in Corso Marconi a Torino potrebbe svanire da un istante all’altro: un anno or sono è stata bloccata l’importazione d’auto cinesi, ufficialmente perché le materie plastiche utilizzate per i cruscotti non rispettavano le norme europee. Non penso che i cinesi ci metteranno molto a rimediare.
Cosa faremo quando giungeranno sui nostri mercati utilitarie cinesi, indiane o brasiliane che verranno vendute a 4.000 euro? Chiuderemo bottega, come ha già fatto l’industria tessile italiana.
Anche per il tessile si chiacchierò a lungo di nuovi tessuti con chip incorporati per mantenere costante la temperatura del corpo, ma non se ne fece nulla. Tessuti “non tessuti” e nuove tecnologie nelle fibre tessili alimentarono soltanto il pour parler di convegni e simposi: inutili come i chiacchiericci televisivi.
La crisi colpirà l’intera industria automobilistica europea, ma i primi a cadere saranno sempre i “vasi di coccio” e non c’è vaso più fragile del sistema industriale italiano, sempre pronto a chiedere sgravi fiscali allo Stato e poverissimo di piani industriali convincenti.
Vogliamo ricordare la fine dell’elettronica – Olivetti – grazie a De Benedetti? Quella della chimica – Montedison – con Gardini? E Tanzi – la Parmalat – salvata dall’intervento pubblico e dalle banche dopo che aveva dilapidato le risorse di migliaia di piccoli risparmiatori?
L’innovazione tecnologica mette a nudo proprio la pochezza delle nostre classi dirigenti – politiche, ma anche imprenditoriali – e ci fa pensare che agiscano, in fondo, soltanto per rinnovare loro stesse. Del Paese reale, pare che non gliene importi nulla.
Lor signori investono in Cina ed in Brasile, mentre i nostri figli – spesso laureati – finiscono per lavorare per 500 euro il mese – privi di previdenza e d’assistenza – nei call centre.
Quale sarebbe, invece, il panorama se la classe politica premiasse chi propone prodotti innovativi e brevetti, ed imprenditori coraggiosi lanciassero la nuova tecnologia sui mercati internazionali? Perché non imparare dalla Finlandia e dall’Irlanda? Perché l’Italia utilizzò scarsamente – quando erano disponibili – i fondi strutturali concessi dall’Unione Europea proprio per modernizzare gli apparati produttivi?
Meglio non perder tempo con questi sogni ad occhi aperti: rimangono il “pianto antico” per la salute del pianeta, le molte profferte d’intervento e tutto il resto, che si materializzano – ad ogni legge Finanziaria – in richieste di soldi a fronte di nulla. Ricchissimi straccioni: ecco chi sono quelli che ci comandano. Poveri noi.
[1] L’ingegner Longo lavorò – durante il secondo conflitto mondiale – alla prestigiosa Messerscmitt tedesca, nella progettazione dei motori del noto caccia Focke-Wulf 190.
[2] Il calcolo è stato effettuato dalla TRT Trasporti e Territorio, utilizzando un sofisticato modello matematico, che si chiama Astra-Italia. Fonte: Repubblica, 24 aprile 2006.
[3] Fonte: Televideo, 11/3/2007.
[4] Dati forniti da Roberto Togni, responsabile per l’Italia del settore solare della Wuerth Solar Gmbh.
[5] Ricordiamo che per irraggiamento non s’intende soltanto la radiazione solare diretta, ma anche quella indiretta.