Homepage    Chi sono   Libri pubblicati   Attività letteraria  Articoli Pubblicati  Libri in Pdf Link  Posta  Blog

Gigawatt e modelli

Oggi è uno dei primi giorni di marzo e leggo sul davanzale la temperatura esterna: 19 gradi all’ombra, a mezzogiorno, nel profondo e continentale Piemonte. Il cielo è azzurro ed il sole brucia: se si rimane fermi in auto viene quasi la voglia d’accendere il climatizzatore. Il tarassaco – l’insalata “dei prati” – non ha cessato di crescere e fiorire per tutto l’inverno, per la gioia di chi ama i gusti selvatici. Non sfugge però, all’occhio attento, che qualcosa non va: gli alberi hanno iniziato con un mese d’anticipo la ripresa vegetativa ma tutto ciò che è verde sembra un po’ più spento, secco. Alla base degli alberi non c’è humus ma terra asciutta: se la notte s’iniziano ad incocciare con i fari le falene, i vermi sono quasi scomparsi.

 

Tutto ciò non è passato inosservato ed anche il “palazzo” della politica qualcosa ha dovuto ammettere: il clima umido, molto “inglese”, che abbiamo avuto lo (oramai) scorso inverno è stato molto probabilmente dovuto all’aumento dell’anidride carbonica nell’aria, che contribuisce a mantenere in forma gassosa l’acqua nell’atmosfera. In altre parole, più CO2 c’è nell’aria, più vapore acqueo vi ristagna.

A fronte dell’evidenza, anche il mondo degli ultimi scettici si è mobilitato: fioriscono le teorie più assurde per non riconoscere che abbiamo modificato uno dei parametri chiave della biosfera. Il tasso d’anidride carbonica – negli ultimi 20 milioni di anni – è sempre stato compreso fra 180 e 270 PPM (parti per milione), mentre oggi ha superato quota 376. Siamo dei saccenti e presuntuosi apprendisti stregoni, che si mettono a giocherellare con una chiave inglese fra gli ingranaggi di una Ferrari da competizione. Provino a dimostrare che il tasso di CO2 fuori controllo non ha nessun effetto sul clima.

 

Pur navigando oramai verso l’emergenza, qualcosa si muove: il ministro Pecoraro Scanio ha chiamato al capezzale dell’industria energetica italiana il prof. Carlo Rubbia – nominandolo suo consulente per le energie rinnovabili – ed è stata senz’altro la miglior scelta. Forse, tanta “agitazione” sul Web – a fronte dell’immobilismo dell’informazione ufficiale – qualche frutto inizia a darlo.

Chi è abituato a confrontarsi da decenni con il problema ambientale a volte coglie passaggi che magari ad altri sfuggono: il prof. Rubbia – durante un dibattito televisivo – ebbe a dire che “non possiamo pensare di trarre dal mondo naturale la stessa quantità d’energia che oggi consumiamo”.

 

Questa affermazione, a prima vista, parrebbe il classico “colpo al cerchio ed alla botte”: subito, i vari sostenitori del nucleare si sono “infilati” nel discorso per cercare di salvare i futuri bilanci dell’industria elettronucleare (ed il loro, personale, portafogli).

Se riflettiamo un solo secondo sull’evidenza, ossia che Rubbia è uno dei massimi esperti mondiali nel ramo – e non può non sapere che anche l’atomo ha i decenni contati (più o meno 50 anni come il petrolio, viste le stime dell’IEA sulla disponibilità d’Uranio) – dovremmo chiederci qual era il senso dell’affermazione di Rubbia.

Fra circa mezzo secolo, dovremo aver già compiuto una delle trasformazioni epocali della nostra civiltà: 50 anni non sono un’eternità, scoccheranno quando gli attuali allievi delle scuole medie andranno in pensione. Ergo, possiamo presumere che tanti di questi ragazzi e ragazze, che oggi giocherellano con il telefonino, lavoreranno per l’intera vita proprio per risolvere i problemi dell’energia e dell’ambiente.

Cosa dovranno fare?

 

La risposta più semplice (e verissima) è: dovranno scovare tanti Gigawatt d’energia dal sole, dal vento, dal mare, dalla geotermia e fare in modo che la trasformazione di queste enormi masse d’energia avvenga a costi contenuti.

Per due secoli abbiamo goduto di un enorme “regalo”: l’energia dei fossili, non rinnovabile se non in tempi geologici. Da oggi, dobbiamo iniziare ad utilizzare ciò che rimane delle energie dei fossili per tracciare le fondamenta del nuovo sistema energetico.

Visti in quest’ottica, anche virulenti dissidi come quelli sul nucleare o sui rigassificatori scemano d’importanza: questi mezzi sono soltanto dei “supplenti” nell’attesa che si giunga ad una nuova ridefinizione del sistema d’approvvigionamento energetico.

Anche la gestione dei rifiuti deve trovare soluzione: si deve necessariamente aumentare la quota di riciclo dei materiali usati, ma tutti sanno che oltre un certo limite è molto difficile andare. Un solo esempio: gran parte del legname viene utilizzato per coperture edili o per la costruzione di mobili. Lo stesso quantitativo di legname, dopo 30 anni circa, va in discarica. Perché? Per la naturale decomposizione del legno, oppure perché i mobili d’oggi – costruiti con tecniche che s’affidano più alle colle ed alle vernici che alla resistenza strutturale – dopo quel periodo decadono. Chi s’oppone alla costruzione di moderni termovalorizzatori non riflette abbastanza: ciò che non viene riciclato va in discarica; e in discarica, cosa avviene?

I materiali si decompongono per fermentazione anaerobica, ossia producono naturalmente metano che è difficile recuperare: una molecola di metano trattiene una quantità di radiazione infrarossa pari a quella che riflettono 21 molecole di anidride carbonica. In definitiva, o si riesce a recuperare il 100% dei materiali, oppure bisogna riconoscere che il rimanente è meglio bruciarlo che seppellirlo (come oggi avviene).

 

Un altro paio di maniche sarebbe criticare l’attuale sistema di produzione e di consumo, ossia l’inveterata tendenza a costruire beni che hanno già “data di scadenza”: la cosiddetta “obsolescenza programmata”.

Prima o dopo l’umanità dovrà chiedersi che senso ha costruire beni che durano poco per poterne costruire altri: sappiamo bene qual è la ragione del fenomeno, ossia la naturale tendenza del capitalismo ad aumentare i consumi per poter affermare che c’è stato “incremento del PIL” (e dei profitti).

In altre parole, si tratta di trovare dei modelli di produzione e consumo che non ci privino di ciò di cui abbiamo bisogno ma, nel contempo, ci consentano di “raffreddare” la corsa produzione/consumo.

Spesso, su questo argomento, si rischia di cadere in un tranello di tipo ideologico: prima definisco il modello sin nei minimi particolari, poi lo applico ed ho risolto il problema. Nobile intento, ma i vari piani quinquennali dell’URSS ci raccontano quanto sia difficile programmare ed applicare un modello tecnologico ed economico all’evoluzione sociale. Quando ci riusciremo, avremo fatto Bingo.

 

Altra soluzione è la trasformazione in itinere dei modelli, e forse questo è un obiettivo più alla nostra portata: 50 anni possono bastare per ridefinire i vari modelli (produzione, trasporto, consumo, ecc), a patto che si sia coscienti del problema e che s’intenda affrontarlo.

Che senso può avere, allora, l’affermazione di Rubbia: “non possiamo pensare di trarre dal mondo naturale la stessa quantità d’energia che oggi consumiamo”?

 

Nessuno, dotato di buon senso, può immaginare cosa potrà accadere fra uno o due secoli, ma pensare oggi di scovare così – tout court e nel volgere d’appena mezzo secolo – 10 miliardi di TEP[1] d’energia dal mondo naturale è un’affermazione un poco eccessiva. Ad essere generosi, oggi non arriviamo – con le rinnovabili, il geotermico e l’idroelettrico – a coprire il 15% di tale fabbisogno: e il restante 85%?

E non si tratta soltanto di quantità, ma di riserve: i fossili sono per definizione una riserva naturale, mentre le rinnovabili richiedono che si trovi una forma di conservazione dell’energia. L’idrogeno è il naturale candidato, ma dobbiamo costruire attorno a questo concetto un sistema tecnologico (del quale conosciamo le basi teoriche e molte soluzioni tecnologiche) che oggi è inesistente.

La ricerca sulle fonti deve procedere a spron battuto – questo è certo – ma, parimenti, dobbiamo iniziare a criticare (nel senso di raffinare) i modelli. Ecco, questo – a mio parere – era il senso dell’affermazione di Rubbia.

 

Se volessimo assegnare un epitaffio al secolo appena trascorso – definito spesso “il secolo breve” – potremmo chiamarlo il secolo “dello spreco”. Soltanto nelle due guerre mondiali, abbiamo depositato sul fondo degli oceani una cifra dell’ordine di 50 milioni di tonnellate d’acciaio: si tratta soltanto di una quantità indicativa, ma riflettiamo che metà del naviglio mercantile esistente nel 1939 fu affondato durante la Seconda Guerra Mondiale.

Se le guerre sono l’apoteosi dello spreco di risorse, anche in pace non si scherza: siamo tanto orgogliosi del motore a scoppio, ma soltanto il 35% della benzina che introduciamo nel serbatoio si trasforma in energia meccanica, mentre il resto se ne va sotto forma di calore e serve soltanto a scaldare il cielo.

Tutto il nostro sistema tecnologico è improntato allo spreco: conosciamo alla perfezione le leggi della termodinamica, dell’idraulica e dell’elettrologia ma non le applichiamo. Centrali termoelettriche con rendimenti del 40%, caldaie per il riscaldamento con sprechi affini, climatizzatori che gettano al vento fiumi d’aria rovente carica d’energia…è un elenco senza fine.

 

E i trasporti? Qui siamo all’apoteosi.

Molti sanno, qualcuno parla, ma nessuno muove un dito: questa, in sintesi, potrebbe essere una definizione estremamente concisa dell’approccio al mondo del trasporto.

 

Chi sa? Beh…da molti anni l’UE e molti esperti del ramo (fra i quali anche l’attuale Ministro Bianchi che, all’indomani della sua nomina, per prima cosa parlò delle “autostrade del mare”) predicano che il trasporto su gomma è la più sciagurata delle scelte, che la ferrovia è molto meglio e che l’optimum è la nave.

Peccato che oggi si dedichi soprattutto ad inasprire inutilmente le sanzioni per gli automobilisti: e le “autostrade del mare”? Finite nel dimenticatoio? Oppure, visto che è impossibile scindere quel legame propagandato da decenni di pubblicità – ossia, velocità = successo e potere – si getta tutto alle ortiche e si pensa di reperire “risorse” per gli Enti Locali con le salatissime multe? Essere sorpresi alla guida dopo aver bevuto un aperitivo può costare 12.000 euro di multa! Ma, lor signori, rammentano che è lo stipendio annuo di tantissimi italiani? Forse, guadagnare 19.000 euro il mese ha dato loro alla testa?

 

Chi parla? La stessa Commissione Europea – che nel suo Libro bianco, La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte[2] – afferma drasticamente:

 

“È arrivato il momento di dare ai trasporti meno cemento e più idee.”

 

Verrebbe da dire: la TAV sentitamente ringrazia. L’aspetto curioso della vicenda TAV è che la logica che conduce a non costruire il Ponte sullo Stretto di Messina è la stessa che dovrebbe portare a non spendere una valanga di soldi per bucare la montagna, bensì a riutilizzare la linea esistente e poco sfruttata.

 

Perché il Ponte sullo Stretto non serve a niente? Oggi, un treno impiega circa due ore per attraversare lo stretto, mediante i traghetti. Vediamo un esempio per la tratta Palermo – Milano, lunga circa 1450 Km.

Un treno in grado di mantenere una velocità media di 90 Km orari impiegherebbe circa 18 ore (16 + 2) per giungere a Milano mentre un altro, esattamente uguale e nelle stesse condizioni – che utilizzasse il ponte e percorresse la tratta a 80 Km orari – ci metterebbe lo stesso tempo (18 ore). Quindi, l’innalzamento della velocità su brevi tratti ha poco significato: è la media della percorrenza totale a fare la differenza. Per non incrementare di soli 10Km/h la velocità media, ci sarebbe una spesa (prevista ed iniziale) di 6,5 miliardi di euro e lo sconvolgimento urbanistico di due città.

 

Il “corridoio 5” Lisbona Kiev è lungo circa 3.000 Km: se percorso interamente alla (folle) velocità di 140 Km/h (per le merci), il nostro treno carico d’acciughe portoghesi giungerebbe a Kiev in 21 ore e 30 minuti.

Il tratto “incriminato” – St. Jean de la Maurienne-Bussoleno – è lungo circa 100 Km: se venisse “sottratto” all’alta velocità, il corridoio 5 consentirebbe una velocità di 140 Km/h per 2900 Km ed una minore – probabilmente intorno ai 60 Km/h – per i rimanenti 100. Quanto tempo ci metterebbero le nostre acciughe per arrivare a Kiev? 20.40 ore sull’alta velocità e 1.40 ore sul tratto lento. Totale: 22 ore e 20 minuti.

In buona sostanza, stiamo combinando tutto il can can della TAV in Val di Susa per far giungere un treno da Lisbona a Kiev 50 minuti prima? O le acciughe sono congelate – ed allora non cambia nulla – oppure sono fresche, nel qual caso si dovrà probabilmente buttare tutto in entrambi i casi.

 

Se, poi – con interventi sulla linea esistente – si riuscisse ad elevare la velocità ad 80 Km/h sul tratto montano italo-francese, il “ritardo” – a Kiev – sarebbe di soli 25 minuti. Ma, stiamo scherzando o ci piace perdere del tempo? La fine dello “scherzo” è tutta nel costo dell’opera: cifre fumose e ben nascoste nelle “pieghe” dei bilanci. Quanto? Circa 15 miliardi di euro, più del doppio del Ponte sullo Stretto.

 

I vantaggi? Difficili da comprendere, perché la linea Torino-Lione è già oggi sotto-utilizzata e non si prevedono aumenti negli scambi commerciali con la Francia, da anni stabili su valori che l’attuale linea può tranquillamente assorbire.

Stiamo ragionando praticamente sui sogni, perché l’UE stessa chiarisce quali sono i problemi del traffico ferroviario:

 

“La velocità media del trasporto internazionale di merci (nell’UE, N.d.A.) è di soli 18 km/ora: inferiore a quella di un rompighiaccio in servizio nel Mar Baltico.”

 

Le ferrovie, quindi – a fronte d’enormi investimenti – riescono a raggiungere a malapena la velocità di una modesta nave commerciale – dieci nodi – e sono ben lontane dalle prestazioni dei cosiddetti “traghetti veloci” – 25 e più nodi – ossia circa 50 Km/h.

 

Ciò non significa che la ferrovia sia da ignorare – perché il vero “buco nero” del trasporto è la strada – ma si tratta, comunque, di un mezzo di trasporto nato quando l’umanità scoprì il modo d’alimentare le macchine a vapore con il carbone. Prima, la ferrovia sarebbe stata improponibile.

Un treno merci che s’arresta ad un segnale e che riparte – per raggiungere nuovamente una velocità di 100 Km/h – impiega un’energia pari a 14 Kg di petrolio: la stessa quantità necessaria per scaldare una piccola piscina. Quante fermate effettua nelle stazioni, ai segnali, nei nodi d’interconnessione delle linee? E non si venga a raccontare che le nuove linee ad alta velocità risolveranno il problema: miglioreranno sì il rendimento ma, se le rimanenti linee rimarranno allo stato attuale, i TAV ed i “corridoi” saranno le classiche cattedrali nel deserto.

 

Vogliamo cercare “più idee e meno cemento”, come afferma l’UE stessa? Quali sono i requisiti da soddisfare?

 

 

Il vettore più parco nei consumi c’è: è la nave. Considerando la velocità media dei convogli ferroviari, la nave è più veloce. Qual è il mezzo che consente di percorrere lunghe tratte senza trasbordi e fermate? La nave. Esiste una rete di comunicazione ampia e che giunge quasi ovunque? Sì, sono le vie d’acqua, marine ed interne: per secoli, sono state le uniche vere vie di comunicazione, giacché un carro con trazione animale che viaggiava su una strada dell’epoca – spesso fangosa – serviva solo per il trasporto locale. Tutti i grandi insediamenti d’epoca medievale si trovano nei pressi d’importanti vie d’acqua, marine e fluviali. Ancora l’UE:

 

“Alcuni collegamenti marittimi (in particolare quelli che permettono di evitare le strozzature attuali, cioè Alpi, Pirenei e Benelux e in un domani la frontiera fra Germania e Polonia) saranno integrati nella rete transeuropea allo stesso livello dei collegamenti stradali o ferroviari.”

 

Il modello “acqua” è quindi già oggi vincente per economicità ed inquinamento: purtroppo, nei due secoli dei combustibili fossili è stato trascurato.

Domani – quando non avremo più a disposizione energia da buttare – dovremo soltanto osservare quel modello ed interpretarlo alla luce della modernità.

Osserviamo con stupore i prototipi d’automobili ad idrogeno (elettriche/celle a combustibile), ma pochi sapranno che la nave – grazie ai notevoli spazi interni – è la candidata naturale a ricevere il binomio motore elettrico/cella a combustibile, senza dover imbarcare idrogeno liquido[3]. I nuovi sommergibili italo-tedeschi della classe “U” sono già dotati di questo sistema.

 

Per l’Italia, quali prospettive s’aprirebbero?

Se le linee dei TAV possono soddisfare l’asse ovest-est (va beh, con quel ritardo di 50 minuti a Kiev…) rimane il grande punto interrogativo di mettere in collegamento l’Italia – tutta, e non solo la pianura padana – con le regioni centrali europee.

Presto detto: si bucano le montagne e si costruiscono nuovi valichi per le ferrovie. Nulla di sbagliato – sempre meglio delle colonne d’autotreni – ma se vogliamo metterci anche un po’ d’intelligenza si può fare di meglio.

Vogliamo valutare il meglio, in termini d’economia di combustibili e per il numero dei trasbordi? Vogliamo fornire all’Italia una nuova via di collegamento con l’Europa Centrale? Quale sviluppo economico può avere il Sud se si trova a 2.500 chilometri dalle principale aree economiche europee?

Se una grande potenzialità del nostro Sud potrebbe essere la produzione di primizie (modello Andalusia od Israele) e, più in generale, l’incremento del “biologico” in agricoltura – un tema sempre più caro ai consumatori – perché non definire il modello sulla base delle nostre esigenze?

 

Scrissi, tempo fa, che solo una nuova visione integrata del trasporto marittimo con quello nelle acque interne forniva delle risposte soddisfacenti: non ero mica l’unico a sostenerlo. Ancora l’UE:

 

“In alcuni dei paesi non legati alla rete nord-ovest europea, gli esistenti bacini, in particolare quello del Rodano, del Po e del Douro, presentano un interesse crescente in termini di navigazione regionale ma anche di trasporti fluviali-marittimi, che hanno visto crescere la propria importanza grazie anche ai progressi tecnici realizzati nella progettazione di navi in grado di navigare tanto in mare aperto che sui fiumi.”

 

Cosa sono queste navi fluviali/marine del tipo V (quinto)? Sono navi che hanno una lunghezza standard di 114 metri ed una larghezza di 11 metri circa: la loro portata è di 2.000 tonnellate, ossia il carico di 85 autotreni o di 40 carri ferroviari. Dove possono navigare?

Nei fiumi, nei canali ed in mare, a patto che non siano acque oceaniche o passaggi particolarmente tempestosi: nelle acque costiere italiane possono navigare ovunque.

Il grande vantaggio è proprio nelle loro dimensioni contenute: la nave fluviale/marina del tipo V può utilizzare anche il circuito dei porti “minori”, porti-canale, lagune, porti lacustri, fluviali. Insomma, va quasi dappertutto, a patto d’avere pochissimi metri d’acqua sotto la chiglia.

Uno dei problemi del trasporto sull’acqua italiano è che non abbiamo accesso all’immenso “sistema” del Danubio, la grande arteria centrale europea che smista le merci – direttamente o con affluenti e canali – dai Paesi Bassi al mar Nero, passando per la Germania, l’Austria, le repubbliche ceca e slovacca, l’Ungheria, l’ex Jugoslavia (Drava e Sava), Bulgaria e Romania. Dal Mar Nero s’apre la via dei grandi fiumi russi: senza un solo trasbordo è possibile inviare un container da Anversa a Murmansk con la navigazione interna e del Mar Nero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia è tagliata fuori da questo enorme sistema di comunicazione: anzi, è forse una delle poche nazioni europee ad esserlo. La Francia ha per ora sospeso il collegamento fra il bacino del Rodano e quello del Reno – Meno – Danubio (ufficialmente per motivi ecologici) ma possiamo presumere che ci ripenseranno: per i francesi, però, si tratta solo d’ammodernare poche decine di chilometri di canali già esistenti.

Addirittura la Grecia ha un accesso più agevole attraverso il Bosforo ed il delta del Danubio, così come i porti sulla Manica possono accedervi da Rotterdam o da Anversa: gli unici ad esserne completamente tagliati fuori siamo noi italiani.

 

Sarebbe già un buon risultato (Ministro Bianchi? Pronto?) se riuscissimo a ripristinare la navigazione nel Po con un collegamento con il Lago di Garda: siamo certi che, se l’Italia avesse altro nome (Germania, Olanda, Slovacchia od Ungheria), già ci sarebbe. L’UE ci forniva il 50% delle spese di progettazione ed il 10% di quelle di realizzazione: forse, con un centinaio di milioni[4] (non miliardi!) di euro si poteva sistemare tutto. Erano una “prospettiva politica” troppo poco allettante? Milano, Pavia, Piacenza, Cremona e le altre città del Po sarebbero tornate ad essere realtà portuali, ed oggi l’autostrada Milano-Trieste sarebbe un po’ meno congestionata.

 

La vera innovazione – “più idee e meno cemento” – sarebbe però collegare l’area mediterranea con il Danubio: non è proprio una novità. Già gli austriaci ci avevano pensato e meditarono di collegare l’Adriatico al Danubio mediante i bacini della Sava e della Drava (in Jugoslavia): dal punto di vista tecnico era senz’altro più agevole, ma – all’epoca – gli interessi austro-ungarici erano quelli di collegare soprattutto il Lombardo-Veneto con l’area balcanica e l’Ungheria. Della Germania, a Franz Josef, importava poco.

Finì in un nulla di fatto per la crisi di bilancio di fine ‘800 dell’Austria, che fu costretta addirittura a vendere ai privati alcune linee ferroviarie statali per “far cassa”.

 

Oggi, incontreremmo problemi tecnici? Non irrisolvibili. Con la tecnologia di metà Ottocento fu scavato il Canale di Suez e con quella di fine ‘800 fu realizzato il Canale di Panama, che comprendeva già un complesso sistema di chiuse di sollevamento. Potremmo, con la tecnologia odierna, collegare la valle dell’Adige con quella dell’Inn (e quindi con il Danubio)?

 

Qualcuno ci ha pensato, ed ho ricevuto la scorsa settimana questa e-mail:

 

Egr. signor Carlo Bertani,

In questi giorni abbiamo presentato il Progetto Tirol-Adria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma, alla Direzione Generale Energia e Trasporti dell’EU ed ai governi di Berlino, Vienna, Monaco (per il Lander della Baviera), nonché alle Province Autonome di Bolzano e di Trento. Il Progetto – pubblicato sul sito www.tirol-adria.com – è composto di 4 parti:

 

1.                    A: Centrali idroelettriche Tirol-Adria, con deviazione di acqua dall’Inn verso l’Adige;

2.                   B: Donau-Tirol-Adria-Passage – Collegamento dell’idrovia Danubio col Mare Adriatico, l’alternativa vera e propria alla galleria del Brennero;

3.                    C: Treno Magnetico a Levitazione (Maglev) München-Verona;

4.                    D: Conduttura ATCC sul tratto del Maglev München-Verona;

 

La deviazione di acque dall’Inn verso l’Adige nel Sud Tirolo (Bolzano) crea i presupposti per rendere navigabile il fiume Adige: per la deviazione è necessario il consenso degli Stati confinanti del Danubio.

Collegando i fiumi Inn ed Adige si creerebbe un’idrovia tra Danubio ed il mare Adriatico. Su questa idrovia potrebbe essere trasportata gran parte delle merci. Con le idrovie esistenti nella pianura Padana e sui laghi il trasporto merci si svolgerebbe in maniera meno inquinante.

È un progetto molto complesso e innovativo, in grado di creare nuove prospettive.

Distinti saluti.

 

Tirol-Adria Ltd.

Albert Mairhofer

39030 Valle di Casies/BZ

 

Chiunque potrà rendersi conto del progetto visitando il sito www.tirol-adria.com (consiglio di scaricare i file pdf).

 

Dopo aver letto il progetto, qualcuno inizierà a storcere il naso ed a ridere sotto i baffi: far passare delle navi in galleria…deviare l’acqua dei fiumi…roba da pazzi…

Immaginate come dovette apparire, agli occhi di un uomo di fine Ottocento, la costruzione del canale di Panama: come faranno a sollevare di decine di metri le grandi navi oceaniche? Oggi ci sembra una banalità.

Poi salteranno fuori i difensori “duri e puri” dell’ambiente: bestemmia ambientale! Qualcuno mi scrisse, mesi fa, che la costruzione del canale Po-Milano era “un’ulteriore ferita all’ecosistema padano”. Se i canali sono “ferite”, le autostrade, le TAV, gli elettrodotti, le selve d’antenne per le telecomunicazioni e le centrali termoelettriche cosa sono, i cerotti?

Volete sapere – a mio avviso – quale potrà essere il principale ostacolo al progetto? La tecnologia? Ma figuriamoci…l’ambiente? Sarebbe uno dei progetti più ecologici e vantaggiosi proprio per l’ambiente.

La maggior difficoltà sarebbe tutta per il Ministro D’Alema, che dovrebbe chiedere il “permesso” ad Austria e Germania d’entrare nel “sistema” Danubio. Si parla poco del Danubio, ma l’UE lo considera alla stregua delle altre grandi arterie di traffico:

 

“La Commissione intende proporre un rafforzamento del ruolo della Comunità in seno alle organizzazioni internazionali quali l'Organizzazione marittima internazionale, l'Organizzazione per l'aviazione civile internazionale o la Commissione del Danubio, in modo da tutelare gli interessi dell'Europa a livello mondiale.”

 

Molti “mal di pancia” internazionali per la guerra del Kosovo nacquero proprio per i bombardamenti indiscriminati dell’aviazione (quasi esclusivamente, guarda a caso, quella americana) ai ponti, che paralizzarono e rallentarono la navigazione per parecchio tempo.

Questo progetto incontrerà una feroce opposizione da parte di molti sedicenti ambientalisti: grattata la vernice, però, verranno senz’altro a galla i “dubbi” di Germania ed Austria a concedere all’Italia di transitare sul Danubio.

Le resistenze interne italiane saranno invece il solito coagulo trasversale d’interessi: ferrovie, holding dell’energia, le varie società delle autostrade. Aspettiamoci molte “grida di dolore” per l’ambiente “tradito”.

 

La battaglia di Albert Mairhofer è però una di quelle che vale la pena di combattere, perché quando riusciranno ad inaridire i nostri (realistici) sogni avranno vinto la loro battaglia: quella che ci condurrà tutti – insieme – a perdere la guerra.


 

[1] L’attuale consumo annuo d’energia dell’intero pianeta, espresso in miliardi di Tonnellate Equivalenti di Petrolio.

[2] Tutti gli estratti presenti nel testo provengono da questo documento ufficiale dell’UE.

[3] Per liquefare l’Idrogeno, si “perde” (a meno di recuperare il calore) il 32% dell’energia primaria.

[4] La stima eseguita dal consorzio “Navigare sul Po” nel 2000 era di 400 miliardi di vecchie lire (senza contare i contributi europei).

 

Torna alla scelta degli articoli